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Il bozzolo e il pianoforte

Quando ero ragazzo suonavo il piano nella scuola di musica del mio paese di montagna. Una sera d’inverno bussò alla porta della nostra scuola un uomo con la pelle scura e un lungo mantello. Non parlava la nostra lingua, ma batteva il suo tamburo come se conoscesse il ritmo del cuore di ciascuno di noi.

Suonammo tutti insieme fino al mattino, quando l’uomo misterioso diede a ciascuno dei miei compagni di scuola un piccolo bozzolo, piccolo come l’occhio chiuso di un bambino che sogna. A me, invece, ne diede uno più grande: era grosso come un pugno, e nel porgermelo alluse alle dimensioni del mio pianoforte, e sfiorò con le dita i suoi numerosi tasti bianchi e i tasti neri, con uno sguardo serio negli occhi, tristi e speranzosi a un tempo. Quando si voltò per andarsene, vidi che sul suo mantello era disegnato il profilo di un elefante, le lunghe zanne verso il cielo e la proboscide arricciata come un punto di domanda. Fu l’ultima immagine che ebbi di lui.

Per giorni fui orgoglioso di aver ricevuto il bozzolo più grande, d’altronde avevo sempre pensato di suonare lo strumento più importante dell’orchestra e mi vantai con tutti ad alta voce sia per il dono che per il piano.

 

Passarono le settimane e venne la primavera, e i bozzoli dei miei amici si schiusero al suono dei loro strumenti e al tepore dei raggi del sole dando alla luce splendide farfalle. Ogni farfalla prese una direzione diversa e i miei amici ne seguirono il volo: chi con la sua tromba, chi con il violino, chi con il flauto, uno dopo l’altro, se ne andarono per il mondo seguendo le ali colorate.

Rimanevo solo io, con il mio pianoforte immenso e il bozzolo più grande di tutti. Grande e chiuso in sé.

Suonai tutte le musiche che conoscevo, ma il bozzolo non si aprì.

Venne l’estate che scaldò ogni cosa sulla terra.

Ma il mio bozzolo non si aprì.

 

Quando fu autunno l’orgoglio e il vanto che mi avevano riempito il petto si erano tramutati in rabbia e pesantezza sul cuore. Smisi di suonare, e smisi di guardare il bozzolo: lo chiusi nella coda del pianoforte, ma il malessere non passava. Andavo nel bosco e osservavo da lontano i ricci cadere dagli alberi e rimbalzare sulle foglie secche e mi sembrava di sentirne le punte sulla pelle, tanto ero tormentato dall’inquietudine: dovevo partire? O restare? Ma dove dovevo andare? E perché il mio bozzolo non si apriva? Che cosa avevo fatto di sbagliato? Forse non suonavo abbastanza bene? Perché tutto era cambiato in peggio quando era stato così carico di promesse? E se anche fossi partito, come avrei fatto con il pianoforte? Non potevo lasciarlo, era il mio mestiere, la mia voce, ma non era un violino o una tromba, che si potevano trasportare facilmente.

Ero tormentato da queste domande quando sentii un rumore alle mie spalle. Era un carro carico di fieno, trainato da quattro cavalli fortissimi. Ecco come sarei partito.

E nel giro di pochi giorni, io, il pianoforte e il bozzolo buttato nella sua coda nera, lasciammo il paese, sperando di lasciarci alle spalle anche le domande e i tormenti, al ritmo del trotto di quattro cavalli.

 

Dopo molta strada, mi fermai in un villaggio dove le case erano ferite da crepe profonde e le finestre sembravano chiuse da molto tempo. Per un attimo fui tentato di scappare da quel luogo tetro ma poi restai a guardare le crepe nei muri. Sembravano tracciare una mappa, che percorsi con gli occhi molte volte e senza fretta.

 

Poi, scaricai il pianoforte dal carro e suonai quello che avevo visto e sentito. Piano piano, le finestre si aprirono e una dopo l’altra si affacciarono delle persone, suonai ciò che esprimevano i loro volti. Piovve. Suonai le gocce.

Venne il sole, suonai il tepore dolce dei suoi raggi. Scese la notte e vidi la paura spuntare nei loro occhi, ma non smisi di suonare e loro stettero alla finestra ad ascoltare e insieme attraversammo il buio con le note del piano e non accadde nulla di brutto, ma solo cose belle come le stelle che riempirono a una a una tutto il cielo; quando fu mattina tutti si erano addormentati sui davanzali delle finestre e avevano un nuovo sorriso.

 

Solo un bimbo era ancora sveglio e mi chiese: e ora dove andrai?

 

…sul diario eravamo rimasti qui

Vediamo come va a finire…

 

 

Non sapevo cosa rispondere. Guardai il bozzolo nella cassa del piano e fu allora che lo vidi. Un filo spuntava dalla palla bianca, come una piccola coda, come un dito che indica una strada. Era la prima volta che il mio bozzolo cambiava. Di là, dissi.

Il bambino mise una mano in tasca e tirò fuori un fiammifero e me lo regalò: grazie, disse solo.

 

Di là. Era poco, era appena un cenno di direzione, ma mi affidai a quel piccolo filo bianco come a una bussola, che mi portò fino alla costa. Mi imbarcai con il mio pianoforte, attraversai il mare, poi tutto il deserto, cambiai i cavalli con dei cammelli,  e proseguii fino alla savana.

 

C’erano montagne in lontananza, pochi alberi e un caldo che come un tappo otturava la gola.

Mi sembrò di vedere un buco nel terreno: troverò dell’acqua, mi augurai e spronai i cammelli fino a lì. Scostai le frasche secche che coprivano la fossa e guardai. Non c’era acqua, là dentro.

Ci misi un momento a capire di che cosa si trattasse poi le riconobbi: erano zanne. Tante, tantissime. Archi d’avorio, ampi sorrisi spezzati, muti, rubati ai loro animali.

 

Distolsi lo sguardo e vidi il mio pianoforte: i tasti d’avorio erano bianchissimi sotto la luce del sole. Lucenti. Denti ordinati di una larga bocca pronta a parlare, a raccontare quella storia.

Mi misi a suonare e ascoltai io stesso con stupore la storia che ne uscì: era il racconto dei bracconieri che avevano cacciato gli elefanti, delle grida degli animali feriti dai fucili, dello scempio delle zanne, ora nascoste nel buco del terreno davanti a me, zanne preziose in attesa di essere trafugate chissà dove.

 

Quando finii di suonare, era scesa la notte e si era alzato un vento freddo. Volevo lasciare al più presto quel luogo doloroso ma non sapevo dove andare.

Guardai il bozzolo, e mi sembrò una luna caduta dal cielo: stava chiuso in sé silenzioso, lo sentii più pesante del solito, muto e bianco dentro quell’infinito silenzio.

Aspettavo speranzoso un altro cenno, una direzione nuova, ma nessun filo spuntava.

È finita, pensai, non ho trovato niente e non sono arrivato in nessun posto.

Non avevo forza né idee per proseguire. I cammelli dormivano stremati. Io ero profondamente stanco. Avevo sete. Avevo sempre più freddo.

Misi le mani in tasca, e ritrovai il fiammifero.

Accesi un fuoco, di frasche secche e zanne bianche.

Il falò alzò le sue lingue rosse nel buio. Ne nacque un fuoco immenso. Mi allontanai un po’. Andai a prendere il bozzolo per buttare anche lui nel fuoco.

Ma guardandolo, non ci riuscii: sentii le guance bagnarsi di lacrime e ogni parte del corpo scossa dai singhiozzi. Quando fui stanco anche di piangere mi addormentai, sfinito, con il bozzolo chiuso nel pugno della mano.

Mi svegliai prima dell’alba, nella mie mano non c’era più niente e io tremavo di freddo.

 

Poco lontano da me una macchia arancione e gialla tremava piano nella luce chiara dell’alba.

Ancora il fuoco, pensai… quelle povere zanne bruciano ancora, erano davvero tantissime.

Mi avvicinai, per scaldarmi un po’ ma quel fuoco si alzò come una nuvola… e fu allora che mi accorsi che quelle che avevo visto non erano fiamme e scintille ma ali. Ali di tutte le sfumature di rosso, di arancio, di giallo…

 

Il bozzolo si era aperto e aveva generato non una ma tantissime farfalle che ora si sollevavano leggere nell’aria, come un sole che sorge. Per un attimo lunghissimo il loro volo riempì il mio sguardo e mi scaldò il cuore più del più grande dei falò.

Poi abbassi gli occhi e lo vidi.

 

Era piccolo, rugoso come il più vecchio degli esseri umani, tenero come il più piccolo dei bambini appena nati, dormiva su un fianco con la bocca aperta e con le zanne bianchissime che dondolavano lente al ritmo del respiro, sulla punta di una di loro un’ultima farfalla rossa allungava la sua piccola proboscide verso la grande proboscide dell’elefante, e muoveva piano le sue ali, mentre il piccolo muoveva le sue larghe orecchie nel sonno, con onde lievi di un sogno molto dolce. Poi, volò via, oltre la coda nera del pianoforte, verso l’orizzonte azzurro.

 

Mi sdraiai accanto al piccolo elefante addormentato e lo guardai a lungo.

Quell’elefante era molto più pesante del bozzolo, ma il mio cuore non era mai stato così leggero.

Lontano, un volo di fenicotteri mi parlò di una pozza d’acqua.

Quando l’elefante si sveglierà, ci andremo, pensai.

E mi sentii felice.

 

 

Marina Gellona

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